Ricorda con rabbia, si dice, è il manifesto di una generazione. Confesso che non conoscevo da prima questa commedia di John Osborne, né m’ero curato, come di consueto, d’informarmi su quanto stessi per vedere. Non è pigrizia, ma desiderio d’accostarmi al sipario con occhio virginale; per riflettere e approfondire, d’altronde, c’è sempre tempo.
Manifesto d’una generazione, dicevo. Di quale, poi, non m’è riuscito di capirlo che giunto a casa, tanto attuale è l’adattamento proposto da Luciano Melchionna per l’interpretazione di Daniele Russo e Stefania Rocca, in scena fino al 15 dicembre nella magnifica cornice del teatro Bellini di Napoli. Ambientato nella versione originale a metà degli anni cinquanta, sembra che da allora ad oggi nulla sia cambiato, nella rappresentazione del vuoto morale e interiore cui il protagonista si ribella, rimproverando alla generazione precedente d’essersi fatta padrona del proprio presente come del presente dei suoi figli, cui non ha lasciato ideali per cui lottare, passioni in cui credere, crociate da portare avanti.
“Perché non facciamo un giochino? Facciamo finta che siamo esseri umani e che siamo vivi. Solo per un po’. Cosa ne dite?”
La sceneggiatura è cruda e si presenta allo spettatore senza censure, i dialoghi sono duri e tesi, l’inanità della protagonista, sola a far da contraltare allo spietato cinismo del primo attore, che si ritrova solo nel vento delle sue passioni, che appartengono a tempi storici non suoi, e nelle quali egli non riesce a coinvolgere le sue donne, né il suo remissivo sodale.
Una rappresentazione che coglie il punto, lasciando lo spettatore a lungo coi nervi scoperti, preda del disincanto raccontato dal protagonista, pur nel segno d’una vicenda che vede alfine prevalere il sentimento sui ricatti della vita.
“E’ nato in un’epoca che non è la sua”:
Un paradigma articolato che racconta il disagio non d’una ma di molteplici generazioni, disarticolate nelle proprie fedi – religiose, sociali, morali, politiche – e condannate dalle precedenti alla transumanza dal fuoco delle proprie idee, che pure ardono in braci mai spente, ma che non hanno occasione di ravvivarsi, ché la società odierna non propone venti forti a sufficienza.
Così s’attende la guerra, s’attende la lotta, o la rivolta, o la rivoluzione, a pretesto per scuotersi e viversi fuori come dentro, nell’assenza di slanci ideologici cui aggrapparsi, in un racconto denso di passione che parrebbe un manifesto politico, a tratti persino un inno alla violenza, ma che non è altro che la recrudescenza d’un disagio quanto mai attuale e che le nostre giovani generazioni conoscono benissimo, sperimentandolo giorno dopo giorno sulla propria pelle, nella sciattezza dei costumi e delle idee, e nell’assenza di empatia, e perfino d’inquietudine, che caratterizza l’odierna società.
Di qui l’impotenza, e quindi la rabbia, di non sentirsi vivi, co-attori nell’esistenza, di non aver amici come anche di non aver nemici, immersi come siamo in un rassicurante mondo ovattato che ci permette di vivere cento giorni da pecora, ma non uno da leoni.