Salina da mare incontaminato.
Salina d’amare incondizionatamente.
Salina d’amare partenze.
Viaggio vuol dire mille cose: vuol dire sognare dentro una stanza chiusa a chiave, vuol dire creare con la mente ciò che non esiste, vuol dire prendere di peso il proprio corpo e la propria storia e andare via.
Viaggio però vuol dire anche scoperta: colori, odori, sensazioni, paesaggi. Perché oltre la porta chiusa a chiave, e la fantasia, e il dolore del distacco, c’è il viaggio dentro le mani del mondo. C’è un viaggio che profuma di sale e d’azzurro, su praterie d’acqua che ti conducono, al di là della più avvincente fiaba, all’isola che invece c’è: Salina.
Inizia così la breve avventura nell’unica isola eoliana battuta in questa tornata di esplorazione: con la coda in biglietteria, con i posti esauriti e con un incoraggiante “Non vi preoccupate, a casa non vi mandiamo, il viaggio lo farete”. Come se guardandoci avessero indovinato la nostra natura di predestinati, di coloro che devono conoscere e, per conoscere, vedere.
C’è il viaggio dentro le mani mondo. C’è un viaggio che profuma di sale e d’azzurro
Non è dato sapere di quale abilità si siano serviti gli uomini preposti alla vendita dei biglietti. Il fatto è che noi quell’aliscafo lo prendemmo. I chilometri macinati per arrivare a quell’imbarco non furono vani. Ci sentivamo lupi di mare privilegiati, come se tutto ci appartenesse e nulla potesse accadere senza di noi. Zaini in spalla scivolammo per ore sul mare, quasi in apnea e senza mai parlare, per l’istintivo pudore di non interrompere, con lo sgradevole rumore di aggettivi inadeguati, il suono indefinito dell’effetto domino della miriade di cartoline che ci affollavano gli occhi. Anche quando tutt’intorno era solo acqua, e il panorama apparentemente sempre uguale, la nostra mente continuava a fotografare quelle che evidentemente l’inconscio percepiva come sfumature. La catalogazione delle immagini fu costante, divertente e divertita, anche quando l’azzurro iniziò ad alternarsi, e a volte sovrapporsi, e a volte nascondersi, e a volte fondersi col verde boschivo che incontrammo dall’attracco a Salina fino al nostro luogo di destinazione.
Una corriera da vecchia pellicola cinematografica, affollata anche di gente in piedi, la cui inerzia assecondava i decisi curvamenti di una strada sempre a strapiombo, ci caricò e ci fece scalare la montagna fino all’arrivo al nostro primo appuntamento nel comune di Malfa: quello coi sapori dell’isola. Il primo e anche il più ambito considerata l’entità del viaggio e l’orario.
Su una meravigliosa terrazza vista Paradiso, il Signum, albergo-ristorante tra i più rinomati dell’isola, ci accolse. E ci accolse dentro un fitto pergolato, dai tralci dolcemente adagiati sulla pietra, come biondi riccioli sulla sinuosa schiena di una sirena, oltre cui la vista rimandava ad un’altra isola che svettava all’orizzonte, arrogante e invidiosa. Il caldo torrido oltre la vite, il piacere lì dov’era il nostro desco: all’ombra di allori, limoni e palme nane.
Ospitalità è non far percepire l’ospitalità, è non far sentire i clienti né clienti né ospiti, ma figli di un’unica grande famiglia Una consultazione, fatta di soli sguardi, tra il direttore e il maître per capire come conquistarci. L’intesa fu immediata. I piatti che si susseguirono una poesia: liriche suadenti declamate per la gioia del palato. Un vino pregiato per ogni pietanza, un sommelier ispirato che con cura e dovizia di dettagli ci metteva a parte delle qualità organolettiche di ogni goccia di nettare che ci mesceva, cibo fatto di ingredienti esclusivi e ricercati e genuini per ogni piatto, combinazioni al limite dello scibile, curate dalla fantasia e dall’abilità manuale dell’eccellente chef a celebrazione del gusto degli ospiti, che non dovevano solo mangiare, ma sfiorare l’incredibile, sognare, pensare, godere. Se questo era l’intento del Signum, “missione compiuta”! Ora, normale è che un albergo quattro stelle sia elegante, formale, ordinato, pulito, comodo, ricco di servizi, comfort ed extra. Più raro è che a tutto questo si aggiunga quella particolare scintilla che è determinante per dettare la differenza tra un albergo qualsiasi e un’esperienza da ricordare: l’ospitalità. Perché l’ospitalità non è mettere a disposizione un tetto e un letto. Ospitalità è non far percepire l’ospitalità, è non far sentire i clienti né clienti né ospiti, ma figli di un’unica grande famiglia. Come il biblico figliol prodigo per il cui ritorno si sacrifica il vitello grasso, più come ringraziamento agli dèi che come necessità di nutrimento. Sia i proprietari che tutti gli uomini e le donne impiegati per il nostro benessere sono stati esemplari anfitrioni. Non a caso eravamo gli unici clienti alla loro prima esperienza lì. Tutti quelli transitati almeno una volta erano già ritornati per diverse stagioni, e a ragione, sui loro passi. Così come un decennale ospite presente in quello stesso giorno insieme a noi. Così come la coppia australiana che senza nessun contatto né col posto né con referenti italiani, decise di coronare, in quel piccolo Eden, il suo sogno d’amore. Così come faremo noi dopo la promessa di ritornare che sì tanta bellezza, invero molto molto facilmente, ci ha strappato. Per completare l’idilliaco quadro sarebbe servita solo la giusta compagnia. Io ce l’avevo. Completamente rapiti dai sapori, dalla gentilezza, dalla generosità e dalla bellezza umana dello staff, prendemmo la via del secondo appuntamento, sempre a Malfa. Quello con chi avrebbe accolto le nostre stanche membra e dato loro ristoro. La nostra reggia: Il principe di Salina, l’albergo che ci avrebbe ospitati prendendosi cura di noi.
L’ospitalità anticamente intesa è dunque il modus operandi del Principe di Salina. Perché solo un vero Principe e la sua nobiltà d’animo e d’intenti, accoglie e culla, distende e vizia, regala viste mozzafiato e colori indicibili, prepara torte e marmellate con le sue mani e sa arrossire ai complimenti, si prende cura di te non come lavoro ma come missione e riesce ad avvolgerti con un calore protettivo che rinfresca anche nella canicola agostana.