Attese e purgatorio in-sanità

La scorsa settimana al TRAM avremmo dovuto assistere al secondo dei tre appuntamenti dedicato a Pasolini, purtroppo annullato pochi giorni prima del debutto. Con un po’ di dispiacere per non poter mantenere l’impegno preso di raccontarvi l’intera programmazione a tema Pasolini, stasera sono tornata al TRAM dove ho notato con piacere che il teatro continua la personale dedica al regista, omaggiandolo attraverso letture di suoi brani da parte degli allievi dei corsi di teatro; tali letture si terranno per tutta la durata della stagione teatrale e prima dell’inizio dello spettacolo in cartellone. Questa volta la lettura pasoliniana ha lasciato il posto a In-sanità.

In-sanità.

Non so perché, ma vedere il titolo scritto così mi ha fatto pensare all’album “Aladdain Sane” (A-lad-insane) di David Bowie.

Ma lasciamo stare il duca bianco e torniamo alle nostre poltrone! In-sanità è uno spettacolo scritto a quattro mani, potremmo dire, il padre è Pietro Fusco che per l’adattamento teatrale si è affidato all’amico e attore Peppe Romano. La particolarità è che Romano porta in scena proprio una vicenda personale di Pietro Fusco. Il racconto autobiografico ricostruisce nello specifico una giornata passata in ospedale per degli accertamenti ormai di routine. Gli esami sono stati prenotati, l’ora dell’appuntamento perfettamente rispettata e anche la sala di attesa sembra essere quella giusta. Ma allora perché il paziente non viene chiamato? Deve fare solo un ecocardiogramma e un elettrocardiogramma tutto sommato. Il tempo scorre, le persone in sala di attesa attorno a lui aumentano e diminuiscono in un flusso incessante di cui lui è l’unico elemento statico.

Il tempo scorre, le persone in sala di attesa attorno a lui aumentano e diminuiscono in un flusso incessante di cui lui è l’unico elemento statico.

Nell’estenuante attesa, questo variegato mondo dell’utenza ospedaliera riesce a regalargli dei momenti di svago, alcuni divertenti, come il signore che si perde e una volta ritrovata la sala corretta incolpa la moglie di essersi spostata senza avvisarlo; altri più crudi ma profondamente figli del nostro tempo, con dei vecchietti che “non sono razzisti ma”, una fucilata a quelli che vengono a fare la bella vita in Italia a 35€ al giorno, la darebbero comunque, che non si sa mai… Abbastanza distratto da questi siparietti, ma non tanto da dimenticare il perché è lì, il paziente prova a capire cosa stia accadendo alla sua prenotazione. Chiede chiarimenti in merito alla lunga attesa e un medico con fare scortese lo informa di averlo già chiamato ma che un altro paziente si è presentato al suo posto! Il ladro di identità dal suo canto è certo che sia stato chiamato il suo di cognome, come effettivamente è accaduto.

Foto di Nina Borrelli

Passano quasi due ore e mezza e finalmente è il suo turno. Il medico che, con calma e senza fretta, finalmente lo visita, è del tutto ignaro dei concetti basilari dei rapporti umani, come l’empatia o più semplicemente il rispetto. Il secondo medico che lo visiterà dopo altre due ore, (ricordiamo che l’appuntamento era alle 9:00 del mattino) invece è eccessivamente invadente e abbastanza confuso sul da farsi.

Così fra una battuta e l’altra il protagonista della vicenda ci racconta della straziante esperienza capitatagli. Sembra quasi una parodia di ciò che avviene in una sala d’aspetto, per quanto viene portata allo stremo la situazione, con visita finale di un terzo medico alle 13:30 e ammissione di colpa per aver perso le cartelle mediche fatte poche ore prima dai colleghi. Troppo surreale per essere reale. Quasi uno scherzo, anzi sicuramente uno scherzo, una candid camera: si-cu-ro!

Foto di Nina Borrelli

Invece no, è tutto reale, tutto troppo e davvero reale. La vicenda, raccontata con ironia e sarcasmo non è altro che la rappresentazione su scena di una giornata realmente capitata a un paziente: in questo caso l’autore di questo spettacolo. Ma gli angoli delle labbra non resteranno troppo rivolti in alto, perché questa commedia è in realtà il dramma del calvario ospedaliero, iniziato per Pietro Fusco quando aveva solo otto anni per un intervento di appendicite e non ancora terminato. Il bambino è diventato uomo, e ha dovuto lottare con diagnosi inesatte, cartelle cliniche che scompaiono, operazioni non necessarie e nel mezzo il calvario di un bambino che non può giocare a calcio, di un adolescente con troppi limiti e un adulto costretto a ripetere ogni anno la stessa trafila medica, comprese le attese inspiegabili e l’aggressività gratuita di chi dovrebbe curarti. Chiunque sarebbe inviperito da un’esperienza simile, e non vorrebbe fare altro che infamare e vedere distrutte le vite dei responsabili. A cosa servirebbe? Sicuramente a una soddisfazione personale, ma effimera. Lo scopo dell’autore come della regista (Katia Tannoia) non è quello di sparare a zero sui colpevoli, ma quello ben più nobile di denunciare la situazione della sanità nazionale.

Il bambino è diventato uomo, e ha dovuto lottare con diagnosi inesatte, cartelle cliniche che scompaiono, operazioni non necessarie

Nonostante tutto ciò che il paziente subisce durante la sua vita non c’è mai una parola d’odio o di disprezzo verso i medici. Qualche acredine passeggera, ma niente di più. E’ ben chiaro che non sono loro i colpevoli di una sanità lenta e lacunosa, della quale sono i primi a subirne l’inadeguatezza.

Lo spettacolo vuole essere una denuncia al vertice di un sistema inadeguato e obsoleto, non un attacco personale. La scelta, non facile di confidare quanto vissuto e portarlo in scena è per dare un eco e un impatto più forte e immediato sulla coscienza degli spettatori, e alla fine del monologo di Peppe Romano, la sensazione non può che essere quella di una coltellata dritta in petto. Manca il fiato nell’immedesimarsi con le vicende ventennali del protagonista, e questo non può che confermare che la sua denuncia è arrivata a noi ed è ammirevole il modo rispettoso e pungente con cui è riuscito a metterla su palco alla merce di tutti.

 

Abbiamo visto: In-sanità

Al Teatro Tram di Napoli.

Si ringrazia l’Ufficio Stampa.

Allow me to introduce Lady Ehm. Lady Ehm, pseudonimo di Tirrena Montella, nasce a Napoli nel lontano 1986, ma vive in Sicilia per i primi sei anni della sua vita, nutrendosi prevalentemente di crispelle, arancine e pasta con le sarde. All’età di 13 anni ha la brillante idea di iscriversi al liceo classico, cosa che le causerà la perdita di parecchie diottrie nel tentativo (sempre vano) di decifrare idiomi sul vocabolario di greco e latino (tentativo un po' meno vano). Coerentemente con gli studi umanistici decide, sempre molto furbamente, di frequentare la facoltà di Economia Aziendale, ma fra un bilancio e un lancio di marketing continua a coltivare il suo grande amore: la letteratura e la lettura. Passione che la porterà a diventare editor e correttore di bozze (con all’attivo ben tre manoscritti pubblicati), grazie ad un corso specifico seguito durante il primo lock down. Quando non ci sono restrizioni o lockdown, Lady Ehm a dispetto del suo “nome”, è una pogatrice professionista ai concerti rock. Nei weekend è facile vederla aggirarsi nei boschi arrampicandosi sugli alberi come un Cosimo Piovasco di Rondò qualunque, o inerpicarsi su sentieri ripidi e rocciosi, al solo fine di poter postare il girono dopo tante belle foto in natura, che facciano rodere il fegato a chi ha passato il weekend nel traffico o su divano. Fra le sue doti caratterizzanti si annovera la capacità di ingurgitare un’intera teglia di tiramisù (di qualsiasi dimensione) in pochi minuti; l’abilità di leggere camminando senza pestare niente e nessuno, magari a volte trovandosi a km di distanza da dove sarebbe dovuta arrivare; l’ossessione per Italo Calvino. Tutte queste belle cose riesce a farle grazie al suo lavoro ,retaggio della scelta universitaria, Lady Ehm infatti dal lunedì al venerdì indossa i panni di un supervisore finanziario: di cosa si tratti (dopo ormai 10 anni) non è ancora chiaro nemmeno ai di lei genitori. Per altre informazioni mi trovate in pizzeria.