Scenografia d’impatto, spoglia, quasi da “delirio post atomico”. I due protagonisti scarmigliati e i colori tenui incuriosiscono fin da subito in questa pièce firmata Eugène Ionesco (1909-1994) qui diretta da Valerio Binasco.
I due coniugi, discutono per stupidaggini e sono immensamenti veri e meritevoli di immedesimazione ed empatia per questo.
Nelle note di regia Binasco scrive “voglio che i suoi personaggi sembrino persone strette nella morsa di relazioni assurde, piuttosto che assurde marionette strette nella morsa della plausibilità – spiega il regista, – che ci sia prima di tutto una storia umana, piena di stranezze affascinanti, di suspense e di comicità”. Il dialogo ritmato, rimbalzante tra Il Vecchio (Michele Di Mauro) e la Vecchia (Federica Fracassi), trasporta proprio in questa dimensione. Nella distopia paranoica dell’atto teatrale il senso di angoscia e costrizione si risolve in una catarsi liberatoria, una presa di coscienza di ciò che non si vuole essere e diventare (con e senza una relazione).
Questa pièce, scritta da Ionesco nel 1952, è un esempio perfetto di quello che si chiamerà Nuovo Teatro (o della Derisione o, com’è più noto, dell’Assurdo) e di cui proprio Ionesco con la sua Cantatrice Calva (1950) è l’iniziatore. Mentre in Europa si fa strada un profondo sentimento dell’assurdo, nato dagli stermini e dalle ecatombe, permea nelle opere un desiderio di rinnovamento che contestano la scrittura tradizionale. Questa volontà di rinnovamento è l’atto di nascita di tutta una serie di correnti (Nuovo Teatro, Nuovo Romanzo, Nuova Critica), il cui appellativo sottolinea l’orientamento decisamente innovativo. Queste denominazioni non indicano un movimento strutturato o una scuola letteraria. Ecco perché autori tanto diversi come Samuel Beckett, Arthur Adamov, Jean Genet, Boris Vian, Harold Pinter e altri, sono stati collegati a questa nuova corrente. Nonostante questa indecisione, è però possibile individuare tre grandi caratteristiche: la riconsiderazione della drammaturgia tradizionale, l’emergere del sentimento dell’assurdo e la constatazione dell’impossibilità della comunicazione tra gli esseri, in mancanza di un linguaggio portatore di senso.
Il tuffo finale, segno che la vita ora che è sopraggiunto l’Oratore a rivelare il senso della vita, non potrebbe andare meglio, trasmette molte cose, tutte forse a loro modo valide: libertà, dello spirito ancora più che del corpo, resa, gioia. Tutto il chiacchiericcio della prima parte del dramma, composto da ricordi della loro vita e incombenze puerili del momento, viene spazzato via nella “visione” e nel salto finale e ci incita ad “arrenderci alla speranza”.
Anche il regista, nelle sue note, usa il termine “arresa” e lo associa a “poesia”; “Mi avventuro sapendo che ci sono molta verità e molta allegria genuina, che traspaiono continuamente in questo testo, e, a dispetto della sfacciata stravaganza dell’autore, perfino una poesia “arresa” nei confronti dell’umanità”. La speranza è proprio quella di sostituire sempre di più il chiacchiericcio, la distesa di “atti mancati”, con atti veri, reali e di profonda umanità, come quella che, scavando sotto la patina dell’”assurdo”, permea questo intenso testo di Ionesco.
Abbiamo visto:
Le sedie
di Eugène Ionesco
con Michele Di Mauro, Federica Fracassi
regia Valerio Binasco
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
al Teatro Bellini di Napoli
Si ringrazia l’Ufficio Stampa