Teatro Sala Umberto, Roma. Ci tornavo dopo due anni. Considerando che prima dell’inferno Covid seguivo almeno tre spettacoli al mese, tra cinema, teatro e concerti, ero in grande astinenza. A farmi uscire dal guscio ci volevano due grandi amori, un pezzo storico del cartellone off – Broadway, e l’occasione di vedere all’opera il mio amico e maestro di meditazione Paolo.
Paolo Garghentino da Milano, professione attore. Ero curiosa di sentire la sua bella voce stentorea e calda interpretare, per una volta, parole non sue. Parole meravigliosamente scritte dall’adattamento a cura di Costantino della Gherardesca, di un’opera del drammaturgo statunitense Mart Crowley. The Boys In The Band è andata in scena per 1000 repliche a partire dal 14 aprile 1968, al Theater Four di New York: la prima commedia a tematica gay con sorprendente successo di critica e pubblico. Il movimento omosessuale americano avrebbe iniziato le proprie battaglie l’anno successivo. In Italia diventò un film nel 1970 dal titolo Festa di compleanno per il caro amico Harold. Questa del Sala Umberto porta la firma del regista Giorgio Bozzo.
nessuno, tranne lui, lascerà la casa uguale a come vi era entrato
L’ambientazione e il plot sono piuttosto semplici: In un appartamento della 5th Avenue un gruppo di amici capitanato dal padrone di casa Michael ha organizzato una festa per i 32 anni di Harold. Tra gli altri invitati si presenta a sorpresa anche Alan, vecchio compagno di college di Michael, eterosessuale, che si dimostra ansioso di parlare con il suo vecchio amico di questioni piuttosto delicate. Alan si trova coinvolto nelle storie e dalle personalità degli amici gay di Harold e Michael, e dall’arrivo di un giovane midnight cowboy, ossia una marchetta assoldata come regalo di compleanno. All’arrivo di Harold (Paolo), un dandy simil Wilde, colto, sarcastico, annoiato dalla vita, dagli amici e anche da sè stesso, l’atmosfera tra i i festaioli e lo scarso entusiasmo del festeggiato si fa più tesa e innaturale, tanto che Alan ha uno scontro fisico con uno di loro che aveva esagerato con le battute; a questo punto Michael ha la pessima idea, nel tentativo di guidare la sua piccola truppa verso la festa e non la rissa, di ideare un gioco psicologico che si rivela un gioco al massacro per le anime di tutti i presenti, a parte forse proprio il festeggiato la cui anima, per sua stessa affermazione è già devastata di suo.
“se solo riuscissimo a smettere di odiare noi stessi”
Fatto sta che nessuno, tranne lui, lascerà la casa uguale a come vi era entrato. L’occasione di una lieta reunion si trasforma in uno psicodramma in piena regola, che non risparmia neanche i personaggi “marginali” come il cowboy, Alan e lo stesso Michael, che si limitava a dirigere il gioco. E’ proprio lui, anzi, a risentire maggiormente della sua iniziativa folle; si getta tra le braccia dell’amico ed ex amante Donald con una riflessione: “se solo riuscissimo a smettere di odiare noi stessi”, torturato dai sensi di colpa per aver turbato gli amici e scoperchiato i loro sepolcri, e rimproverando a sè stesso il poco coraggio dimostrato nella vita.
Lascio il teatro anche io, leggermente diversa; ma questo mi accade regolarmente, dopo un bello spettacolo
Atteggiamento comprensibile, in quegli anni, seppure nell’emancipata America. Ancora le minoranze di ogni genere si riunivano tra di loro per esprimersi in libertà, vivendo nella vita pubblica, e al lavoro, esistenze apparentemente “regolari”. Infatti uno dei protagonisti era reduce da un divorzio con una moglie, e aveva due figli. Proprio come Wilde.
La storia si svolge all’interno delle quattro mura virtuali, senza cambi di scena e con un atto unico, per cui tutto è assolutamente nelle mani dei giovani attori, e dei dialoghi notevoli. A dimostrazione che quando un testo è buono e ben interpretato, non si ha bisogno di tanti “effetti speciali”, un po’ come nella musica. Ad aprire e chiudere la storia una canzone meravigliosa, eterna, sensuale, evocativa. Che lascio il piacere di scoprire a chi vedrà lo show.
Lascio il teatro anche io, leggermente diversa; ma questo mi accade regolarmente, dopo un bello spettacolo. Con mille nuove domande, poche risposte e una bella scoperta. Il mio dolce maestro, tra le colonne portanti a cui mi sono appoggiata per non scivolare nella depressione (senza neanche l’autocompiacimento di Harold). Paolo, è un grande attore, non solo un buon amico, un operatore olistico e un filosofo, come sapevo già. Ho apprezzato anche l’umiltà e la preparazione del regista che dal palco ci ha spiegato la storia dell’opera e ci ha ringraziato col cuore, con un sorriso.
Viva le anime belle, il professionismo, il teatro.
Abbiamo visto:
The Boys In The Band, fino al 1° maggio a Roma, Sala Umberto.
E poi, on tour.