Ci vuole un po’ per accantonare la dittatura del significato, quel senso imperativo di dover ricondurre tutto a un filo logico, di dovere assolutamente congiungere significanti e significati in un insieme organico, coerente, che pezzo dopo pezzo snoccioli una storia. Perché siamo abituati a pensare che il teatro sia fatto prevalentemente di storie, a loro volta veicolo di emozioni.
In Bros il rapporto si inverte, e quel tentativo, sebbene più volte ripetuto, risulta alla lunga vano. Sono le emozioni a farla da padrone, e sono esse veicolo della storia. E si tratta di emozioni opprimenti, cupe, inquietanti, distopiche, surreali. Emozioni legate al rapporto con la gerarchia e col potere: un rapporto che ciascuno di noi intrattiene in maniera raramente limpida.
C’è sempre qualcosa di irrisolto in ognuno nel rapporto col potere. Non siamo naturalmente ben disposti nei confronti dell’autorità; ancora meno, siamo disposti alla cieca obbedienza. E questo anche se ricerchiamo l’uomo forte da seguire, anche se abbiamo bisogno di un capo al quale affidare i nostri destini, di un re che si prenda cura di noi, di un regicidio da poter invocare, defenestrando il sovrano quando le cose non ci stanno più bene.
Bros è una storia innovativa, ma per certi versi già scritta. C’è dell’orwelliano nella scrittura, con la sua pornografia del potere, c’è del Beckett, e un Godot che non arriva mai, c’è l’Arancia meccanica di Kubrick nella spettacolarizzazione della violenza. C’è tutta Hannah Arendt nella banalità del male. Nondimeno, a compendio, si rintraccia una originalità del tutto particolare, in un senso di sopraffazione che pervade la sala, circondata da questurini obbedienti al verbo del potere.
È surreale il manifesto della quarta parete lacerata, che grida la voce del potere e che pretende cieca obbedienza. Uno spettacolo simbolico come pochi, che nel simbolismo individua la sua quintessenza, e che dovrebbe essere rivisto dieci volte per poterne cogliere tutte le sfumature. Ma l’intenzione dell’autore non sembra quella di restituire un pieno significato: come anticipato qui sono le emozioni a raccontare una storia, e non viceversa, di modo che mentre le prime arrivano pienamente, per ricostruire la seconda bisogna sapersi accontentare del suo precipitato.
Tanto basta, per soddisfare quelle che sembrano essere le intenzioni originarie del testo di Romeo Castellucci. Ventidue figuranti stringono con la regia un patto di cieca obbedienza e di sottomissione di ogni ragione alla ragione del potere. I rimandi sono innumerevoli, e molteplici i paralleli possibili, praticamente uno per spettatore.
È questo il pregio principale di Bros: eliminando la storia in favore delle emozioni, Bros da uno diventa centomila spettacoli, ciascuno di essi venendo elaborato da chi vi assiste – anzi: lo vive – in misura differente e pari a propria volta al contrastato rapporto che intrattiene col potere.
Abbiamo visto:
BROS
di Romeo Castellucci
con gli agenti Luca Nava, Sergio Scarlatella
e con uomini dalla stradaal Teatro Bellini di Napoli
Si ringrazia l’Ufficio Stampa