Sangue agitato, l’incrollabile certezza della fede

They’re lining up to prisoners
And the guards are taking aim
I struggle with some demons
They were middle class and tame
I didn’t know I had permission
To murder and to maim
You want it darker

(L. Cohen, You want it darker)

Capita a teatro che come in una Epifania il filo conduttore di una storia si sveli sul finale, e questo è un fatto inconsueto ma non tra i più rari, parte di un artifizio ben noto della scrittura teatrale. Meno comune è invece che il fil rouge si presenti sul finale, attraverso la musica che in sottofondo accompagna i titoli di coda.

Antonio Marfella affida la chiave di lettura del suo dittico Sangue agitato, per la produzione di Casa del Contemporaneo, in scena al Teatro Bolivar di Napoli, alle parole di Leonard Cohen, You want it darker.

E con una prosa dal registro alto, a tratti persino barocco, che però non sconfina mai nell’ampolloso, indaga la storia e il mito della religione e della superstizione intercettando molti dei paradigmi del cantautore canadese che vedono nella fede oppio dei popoli e pretesto del potere per imporsi alle masse.

fede oppio dei popoli e pretesto del potere per imporsi alle masse

L’irriverente agiografia di San Gennaro si colloca sempre in bilico tra il cuore del popolo e quello del Santo, chiamato a farsi patrono di Napoli pur essendo egli nato a Benevento e vescovo della città sannita. E tra sacro e profano, paganesimo e cristianità, il testo esplora il mistero della fede cristiana, che non ne esce affatto bene: derisa nella sua ottusità, smontata nelle sue contaminazioni con le fedi pagane che l’hanno preceduta, scalfita nelle sue certezze, tanto incrollabili in quanto cieche, la religione viene derubricata a credulità popolare, utile al potere per elevare chi è gradito e spazzare via chiunque gli risulti scomodo.

È il caso di San Gennaro, al secolo Procolo, che lascia in eredità il patronato su una città sua appena di passaggio e un po’ del suo sangue, destinato a liquefarsi due volte l’anno per prodigioso miracolo, forse – si suggerisce al culmine del pensiero raziocinante – persino male interpretato nel suo significato:

chi ci dice che lo scioglimento del sangue sia di buon auspicio e non piuttosto un modo del Santo di mettere in guardia la città, alla sua maniera, di una imminente sventura?

Giampiero Schiano gli presta una maschera che è maschera a sua volta, interpretando con rimarchevole disinvoltura scenica un transfuga eretico dell’Ordine di San Gennaro, in preda a un delirio che si colloca a metà strada tra il mistico e il negazionista, e che culmina con la sua impersonificazione nel martire.

La seconda piece del dittico, il 41esimo uomo, ha il pregio dell’accuratezza della non facile ricerca storica che l’ha preceduta, e svela la vicende dei 40 martiri di Sebaste secondo la versione dei fatti di Melezio Sebastiano Gambero, passato agli onori della cronaca del tempo come l’unico a non reggere il supplizio inflitto loro a causa della fede cristiana.

Ritratto come disertore, subisce la stessa sorte dei compagni ma senza condividerne lustro e buona fama, onori, gloria e Regno dei Cieli. Un maratoneta che s’arrende all’ultimo miglio, renitente al dolore portato fino alle estreme conseguenze, giunto alle porte del Paradiso per vedersi sbattere da San Pietro il cancello in faccia.

È lo stesso Marfella a dargli sembianze con ottima padronanza scenica, dando memoria al martirio spogliato dalle certezze trasfuse dalla fede. Ma come col miracolo del sangue che precede, il pensiero razionacinante del testo si fa impertinente, e adombra incertezze sulla paternità delle reliquie dei Martiri di Sebaste.

E se quella falange che tanto si venera facesse parte – hai visto mai – del dito fuggiasco di Melezio?

Un’opera complessa, affiancata da una ricerca minuziosa e da un particolare e rimarchevole gusto per la musicalità dei testi.

Un’opera complessa, affiancata da una ricerca minuziosa e da un particolare e rimarchevole gusto per la musicalità dei testi. Due pezzi di buon teatro, dalla sinossi colta e dal registro elevato, che con una pregevole prosa che sa bene adattarsi agli umori del momento attraversa i propri significati.

Ma cercando di districarsi tra simboli, metafore, storie, aneddoti e rappresentazioni e storie delle storie, senza mai ripudiarne alcuna, rischia talvolta di smarrirsi e lascia la sensazione che la scrittura dica fin troppo senza averne mai abbastanza.

I meno amanti del teatro, o i frequentatori meno assidui, avrebbero di certo apprezzato un maggiore ricorso alle forbici prima della stesura finale; detto questo, è lodevole lo sforzo in drammaturgia, e certamente di spessore l’opera nel complesso.

Gli interrogativi invece rimangono, e non pare intento di Marfella dar loro una risposta. Punzecchia, solletica, deride e schernisce, con un buon e inutile uso del volgare e della parolaccia. Solleva la veste del Vescovo per scoprire se sotto è nudo o indossa le mutande.

Ma questo, a noi, non lo dirà.

Abbiamo visto:
Sangue agitato, di e con Antonio Marfella
con Giampiero Schiano
al Teatro Bolivar di Napoli
info qui
Si ringrazia l’Ufficio Stampa.